Alberto Del Pizzo "IL  MONUMENTO"

Capitolo 36

1957: una bella giornata di novembre

La mattina del Quattro Novembre sullo spiazzo dell'Assunta c'era tutto il paese. Una messa in chiesa, e subito dopo la cerimonia all'aperto. Ma alla messa andò poca gente: il gruppo delle autorità e delle famiglie dei Caduti, le bandiere del Comune e dell'Associazione Combattenti, e gli alunni delle scuole, anch'essi con le loro bandiere, e gli insegnanti in testa. Il grosso del pubblico confluì senza fretta verso l'Assunta durante  la celebrazio-

ne della messa; poi, quando sulle scale della chiesa riapparvero le bandiere e dietro di esse le autorità, i combattenti (tutti in borghese, ma con le decorazioni e i nastrini sul bavero della giacca e, alcuni, anche con il cappello da alpino o il fez da bersagliere) e lo stuolo oscuro dei familiari dei Caduti, la folla fece semicerchio intorno al monumento e alla piccola banda musicale che aveva preso posto già da prima, su un lato. I ragazzi delle scuole, divisi per classi, con i grembiuli neri i maschietti, bianchi le femminucce, furono schierati invece dietro, nell'anfiteatro verde del prato.
    Una giornata non molto limpida, ma calda. L'avvocato Pasquantonio infatti, che si era unito in chiesa al gruppo dei maggiorenti ma restando un po' discosto dagli altri in compagnia di don Vittorio, si tergeva la fronte come se fosse estate. Alto e grosso, rapidamente invecchiato negli ultimi tempi, era curvo, un flaccido ammasso di carne, naso gote testa e spalle cascanti come se fosse fatto di molle cera che il tepore dell'estate di San Martino bastasse a disfare. Ma la voce era ancora robusta, molto più sonora, anzi, di quanto lui stesso non pensasse, così che tutti sentirono le sue parole quando disse, credendo di brontolare soltanto all'orecchio fidato di don Vittorio: — Andiamo a sentire questo piagnisteo democratico. — Don Vittorio sogghignò, perché un piagnisteo c'era veramente da attendersi, tra i discorsi di don Alessandro, che notoriamente non era mai stato un miracolo di eloquenza, e dell'altro oratore democristiano
— il senatore De Cristoforis, un diafano vecchietto riemerso nel dopoguerra come una pallida ombra dalle caligini del prefascismo — e quanto avrebbe continuato a sussurrare ai suoi amici don Pasqualino come in un accorato commento a pie' di pagina.
     Quando furono davanti al monumento, ancora coperto, don Vittorio manovrò in modo da riportarsi col suo amico un po' più al centro, così da non essere né tanto in vista da apparire corresponsabile di quella scialba messa in scena democratica né tanto appartato da dar l'impressione di essere stato relegato tra quelli che non contano. Perché nel gruppo c'erano tutti, quelli che s'erano battuti per avere il monumento e quelli che s'erano adoperati per sabotarlo, solidalmente schierati dietro don Alessandro, che se ne infischiava degli uni e degli altri. Con gli occhi socchiusi nel suo faccione da Budda era il solito gatto sornione che non perdeva una battuta di quello che si diceva e si faceva intorno a lui. Certamente li aveva visti, lui e don Carlo, e per un po' don Vittorio temette che li chiamasse per aggiogarli al suo carro, ma poi si accorse, e non senza un'ombra di dispetto, che aveva deciso di ignorarli e che se né lui né Carlo si fossero fatti avanti non li avrebbe tolti dal loro isolamento.
     — Trionfa, quel figlio di una troia — digrignò tra sé e sé don Vittorio, ma forse Carlo lo sentì ugualmente, perché anche lui se la prese col barone: — Il monumento. Lo dovevano fare a lui, questi fregnoni — disse, ma così forte che Vittorio gli dovette dare una gomitata nel fianco per farlo tacere.
     Nel gruppo c'era il notaio Di Prinzio nella sua qualità di primo sindaco del dopoguerra, c'era l'avvocato Sardo, Fanti per eccellenza, l'antitutto, e quindi anche antimilitarista, ma qui convocato come fratello del più alto in grado tra i caduti, c'era Ciccillo Di Bene, medico arrivista e proteiforme, ansioso di mettersi in vista, adesso, perché si era cominciato a parlare della istituzione di un ospedale alla Rocca, c'era il veterinario Carata, il consigliere provinciale zotico e taciturno, c'era Guido Di Santo, sempre disponibile con la sua aria di pronto a tutto e sempre ignorato, e c'era la pattuglia della nuova leva democristiana, Roberto Colasante, Dino Di Bene e gli altri, giovani lesti e impazienti come cavalli al nastro di partenza.
     Tra loro si era ficcato anche Virgilio, poveretto, ma era chiaro che era uno sconfitto, anzi un escluso, e che se mai avesse voluto combinare qualcosa, ma sempre in secondo o terzo piano, in ogni caso, si sarebbe dovuto mettere all'ombra del barone. Lui, don Carlo, lasciava fare.
Certo, se le destre avessero avuto altre possibilità sarebbe stato un discorso diverso. Ma con quest'Italia che s'era data in braccio ai preti e ai comunisti? Si cercasse pure, Virgilio, la sua strada.
     I comunisti in quella cerimonia del monumento non ci si erano messi, anzi i loro più giovani esponenti se ne stavano in disparte a osservare lo spettacolo in atteggiamento di ostentato dissenso; ma erano riusciti a fare scrivere il nome di Carluccio Bizzarri, il partigiano fucilato in Alta Italia, tra i morti di Vittorio Veneto e dell'Abissinia. Così che non ci sarebbe stato affatto da stupirsi se invece di mettersi da parte a ghignare avessero presa la decisione di scendere in massa con la loro bandiera rossa a recitare la farsa di rendere onore ai Caduti.
     L'unico modesto successo degli umiliati combattenti di don Pasqualino era stata la designazione del Cappellano Militare che aveva celebrato la messa: don Alessio Ruscitti, il parroco di Torre Avellana, il sacerdote combattente d'Africa e d'Albania, decorato con una sonante medaglia al valore militare. Un prete valoroso, vivaddio! E un gran parlatore, un oratore da comizio, altro che quaresimali, certamente il più adatto tra i presenti a pronunziare il discorso inaugurale. E invece non te l'avevano neutralizzato quei porci di democristiani? Eccolo lì, povero don Alessio, celebrata la sua messa per i morti nella chiesa dell'Assunta (nemmeno la Messa al Campo avevano voluto, quegli sciagurati), confuso nel drappello delle autorità e costretto anche lui, con le sue rilucenti decorazioni sull'abito talare, a deliziarsi dell'oratoria di due capponi.
     In testa allo sparuto manipolo dell'Associazione Combattenti, al limite dunque tra quelli che contano e quelli che non contano nulla, c'erano Donato La Morgia, nella sua qualità di fratello di un caduto, e Nicolino Masci, combattente a pieno diritto, i fedeli scudieri di don Pasqualino, il quale infatti stava appena un passo davanti a loro, accanto al Senatore, al Prefetto e al Sindaco. Maestro e pupillo allo stesso tempo, si diceva ironicamente don Vittorio, perché quei due, e Donato specialmente, ostentavano sempre una affettuosa protezione nei riguardi di Pasqualino, il quale dal canto suo non era detto che non mostrasse di averne bisogno, con quella sua aria di vecchio fanciullo.
    Tra le più alte autorità c'era anche Raffaele Valente, giunto espressamente da Chieti al seguito del Prefetto insieme con altri funzionari della Prefettura.
    Don Carlo non lo aveva notato prima: — C'è tornato apposta dall'Alta Italia, quel satanasso? — domandò con quel vocione a don Vittorio.
     — No, che Alta Italia! Sono due o tre mesi che s'è fatto trasferire a Chieti. Non lo sapevi? Ma non è più il satanasso che dici tu. Il diavolo s'è segate le corna.
     Infatti Raffaele non s'era fatto più sentire per il Piano le poche volte che era tornato alla Rocca. Aveva fatto carriera e assunta una veste di ufficialità a cui non si confacevano più certe filippiche. Pancia piena non cerca pensieri, e lui s'era bene ingrassato, aveva addolcito con molto adipe le linee una volta scattanti della sua figura. Lo sguardo no, era sempre imperioso e fiammeggiante, con la differenza che non esprimeva più alcuna protesta ma solo una ferma volontà proveniente dall'alto. Perciò ancor più di prima si guardava attorno come se non ci fosse che lui a far andare le cose per il verso giusto. Infatti anche adesso era lì per ricordare che se il monumento stava per essere inaugurato era perché lui l'aveva voluto. Quanto al fatto che ci fosse anche il nome di Carlo Bizzarri tra gli altri caduti, non aveva più alcun interesse.
     Ascoltò a braccia conserte le brevi parole con le quali don Alessandro aprì la cerimonia e applaudì quando applaudirono tutti, anzi precedette gli altri, con ferma convinzione, come se don Alessandro avesse detto precisamente le cose che egli aveva in animo e che da parte sua esprimeva con lo sguardo e con l'atteggiamento risoluto. Il gruppo degli studenti dissidenti, con Luigino Bambagia, Federico Sardo e Gaetano, il figlio del maestro Villani, non faceva che guardare verso di lui con sorrisi e ammiccamenti, ma lui non mostrò di accorgersene. Il suo applauso scrosciò con gli altri anche quando il barone accennò, con eloquenza un po' frusta, all'epopea popolare da cui era uscita la nuova Italia democratica, all'indomito coraggio col quale tanti modesti figli d'Italia, privi di capi e di direttive, avevano saputo opporsi, « forti soltanto del loro amore per la libertà » — disse —, « al bieco straniero che faceva strazio disumano delle nostre belle contrade dopo averle occupate da infido alleato ».
     — Povero Alessandro, ecco fatto il suo compito di scuola — brontolò don Carlo all'orecchio del suo amico, e questa volta veramente le sue parole non furono udite da troppa gente, perché vennero sommerse dagli applausi.
     Il barone del resto più che un compitino di scuola non aveva voluto fare. Non era un oratore e non ci teneva. Né era capace di dare accenti impetuosi alla sua voce. Quelle cose risapute le aveva dette con un tono poco diverso da quello che avrebbe usato per fare un brindisi a tavola, che era l'unico genere di oratoria col quale avesse preso dimestichezza, forse perché era il solo che gli consentisse di esercitare la sua signorile arguzia. Adesso, cessati gli applausi, s'era rivolto al Senatore e al Prefetto per chiedere il loro assenso, e aveva fatto un cenno a chi doveva scoprire il monumento.
     La banda riattaccò l'inno di Mameli e il drappo bianco cadde, scoprendo la linda architettura di travertino. Tutti s'irrigidirono nella posizione di attenti. Don Pasqualino era davanti a tutti, gonfio d'orgoglio e di commozione, trasportato dalla solennità del momento verso i ricordi delle sue due guerre e di quanti, ufficiali e umili soldati, nell'una e nell'altra avevano diviso con lui fatiche e pericoli. I più cari li aveva dinanzi agli occhi, ma non senza che la loro figura reale si mescolasse, sull'onda di quella musica e nella contemplazione di quel « monumentino » (come da qualche tempo un po' per modestia e un po' per un affettuoso sentimento di paternità spirituale egli chiamava la sua opera), all'immagine astratta del combattente che è pronto a immolarsi per la patria, così che la fisionomia degli amici perduti e di quelli lontani che, conosciuti nelle trincee, dal tempo di guerra non aveva più rivisti, non riusciva a emergere dai suoi commossi ricordi. No, adesso vedeva bene che il discorso non avrebbe potuto pronunciarlo in nessun modo, se mai avesse accettato l'incarico di prepararlo, tanto si sentiva la gola serrata dalla commozione. Del resto, meglio, — egli pensava — molto meglio di ogni fluire di parole il silenzio di quei momenti solenni.
Commosso quanto lui era soltanto Lunardo, che allineato con i suonatori della prima fila, gonfiava le gote sul suo clarino contemplandosi con le prolungate occhiate che a facilità della musica gli consentiva, le linee del monumento al quale era orgoglioso di aver collaborato. Ma la sua commozione non derivava da questo. I nomi dei caduti, sì, le grandi tavole grigie su cui aveva inciso i bei caratteri latini e i sobri fregi che l'architetto gli aveva disegnati; ma i suoi pensieri andavano di nuovo ad alcuni di quei giovani di cui aveva inciso il nome sulla pietra e di cui dietro il gruppo delle autorità vedeva anche i parenti, povera gente che sembrava averci tanto poco a che fare con le autorità e con la cerimonia che si stava svolgendo.
     C'era Concetta, la moglie di Carmine Diodati; c'era Nicola Bizzarri, il padre di Carluccio; c'era Paolino Rotunno, con i capelli bianchi e il viso scavato da tanti guai, a cui il figlio avrebbe forse rimesso in piedi il negozio e invece non s'era mai fatto vivo dalla Russia nemmeno con una cartolina e doveva essere morto prima ancora di vedere in quali posti lo avevano mandato a combattere; c'erano i genitori di Armandino Di Gioia, che lui, Lunardo, aveva visto crescere e andare a scuola con la cartella a tracolla e giocare a palla nello spiazzo accanto alla sua bottega: un pelorosso piccolo e nervoso con un vortice di capelli sulla fronte, che s'entusiasmava per nulla e per nulla litigava con i compagni durante la partita e sbottava a piangere di rabbia per un goal o un calcio di rigore. Era partito forse nel Quarantadue, o nel Quarantuno, perché l'ultima cosa che ricordasse di lui Lunardo era che andava scrivendo con la calce e col catrame per i muri del Piano gli evviva per Rocco Di Tullio, il ciclista della Rocca che prese parte all'ultimo giro d'Italia, che fu quello del Quaranta.
     Viva il torello d'Abruzzo, aveva scritto proprio su un muro della strada nuova di fronte alla sua bottega, perché il giro doveva passare appunto li quell'anno, e la scritta di catrame rimase poi per tutta la durata della guerra, per tutto il tempo dei Tedeschi e degli Inglesi e del dopoguerra.
     Nemmeno di Armandino si era mai saputo dove e come fosse morto. L'avevano dato disperso in Russia come Nicolino Rotunno e come don Gigino Sullo, che s'era perduto anche lui in quelle pianure gelate e in famiglia non avevano mai rinunciato alla speranza di riabbracciarlo e forse adesso ancora s'illudevano e perciò nessuno di loro s'era voluto mettere tra i parenti dei caduti, nonostante che il suo nome fosse inciso tra gli altri. E anche se in paese si conoscevano si e no di vista e non avevano mai giocato una partita a carte insieme perché don Gigino era figlio di signori e stava tutto l'anno a studiare fuori, chi sa che feste si sarebbero fatte là, se mai si fossero incontrati, due compaesani, a così grande distanza da casa.
     Finito l'inno di Mameli il senatore De Cristoforis, un vecchietto bianco e curvo che Lunardo non aveva mai visto prima, cominciò a sua volta a parlare, ma a bassa voce, senza gesti, col cappello in mano e lo sguardo rivolto alle lapidi. Così che a Lunardo che s'era messo ad ascoltarlo senza capire molto, con la mente ancora piena del ricordò di Armandino e di come lo aveva visto crescere e poi improvvisamente sparire prima ancora che fosse uomo fatto, sembrò che la cerimonia si celebrasse soltanto per lui in quella bella mattinata di novembre, e che tutti, autorità, amici, gente del paese, banda musicale, si fossero raccolti col vecchio padre e con la madre intorno alla sua sepoltura, e che perciò quest'altro vecchio, che chi sa perché era venuto da fuori a ricordarlo, parlava cosi dimesso e non sollevava un momento lo sguardo da quell'ara che era veramente una tomba, tutta di bianco travertino e con un lampada votiva che le ardeva davanti.

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Sezione: Il Monumento, cap. 36

Il Monumento - capitolo 36, è una pagina creata il 04-11-2005


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